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Channel: Commenti a: Esorcismo di una foto
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Di: Michele Smargiassi

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Caro Sergio, avevo in animo di chiederti se pensi che un fotografo possa (potesse) essere solo un militante o una spia, e non magari un testimone. Ma la tua “provocazione” finale, sorprendente, mi sollecita molto di più. Dunque, dici, quella foto “da incubo” avrebbe potuto addirittura diventare un’icona eroica del Movimento, perfino un <em>gadget </em>rivoluzionario, se quel giorno in via De Amicis le pistole non avessero ucciso, cioè se quell’immagine non si fosse sporcata di sangue. Verosimile. Anzi molto fondato, direi. Ma questo allora sarebbe successo a una sola condizione, molto sofisticata mediaticamente e intellettualmente: ossia che le armi fossero impugnate solo per essere usate in modo difforme dal loro scopo reale (una pistola non è stata progettata per spaccare un vetro, ma per bucare un torace o un cranio), ossia che fossero usate solo in funzione <em>retorica </em>(l’assalto alla facciata dell’Assoindustriali era metonimia e simbolo: fucilare i vetri al posto di fucilare i padroni), come materiale per confezionare messaggi mediatici (anche una<em> t-shirt</em> è un medium). Questo avrebbe comportato una notevole consapevolezza degli armati, e una certa disponibilità a giocare come attori di una rappresentazione. Ma le cose non andarono così. In via De Amicis le pistole spararono e uccisero davvero, e Custra fu colpito con un colpo in mezzo alla fronte. Io penso che non si trattò di un caso sfortunato, ma di un salto di qualità. Dunque, proprio in relazione alla sparatoria “simbolica” di due giorni prima, si può dire che ci fu chi deliberatamente progettò, o mise in conto, il sangue, accantonando la via retorica. Quella fotografia così efficace non fu rubata al Movimento da uno Stato cattivo: gli fu regalata da una consapevole scelta politico-omicida. E la prova è nel vostro libro. A differenza di molti di voi (sono illuminanti le citazioni da <em>Rosso</em>), altri (compresi, mi apre, alcuni di coloro che spararono quel giorno) non si fecero affatto impressionare dall’ “incubo” di quella foto (che fu immediatamente messa al lavoro ideologico di icona “criminalizzante”), ma al contrario continuarono a sparare anche nei mesi e negli anni successivi, passando dalla copertura militare di un corteo alle operazioni armate pianificate, e in molti casi all'omicidio politico mirato, ma paradossalmente sempre in un'ottica simbolica e mediatica (quelli delle Br erano comunicati stampa serviti ai giornali con un cadavere sopra per imporsi alla pubblicazione con una forza che da soli non avrebbero mai avuto), ma <em>volutamente</em>, questa volta, sporchi di sangue. Dunque, in qualche modo, accettarono il terreno simbolico imposto da quella foto, non se ne ritrassero come da una trappola. Perché? Perché non è mai una foto a cambiare le scelte degli uomini, se quegli uomini non sono già pronti a scegliere. Le foto del Vietnam non hanno vinto la guerra: fu il disgusto degli americani per la guerra, alimentandosi di fotografie, a togliere il consenso ai governi Usa. Quella fotografia, allora, ed è un passo avanti che mi sento di fare nella nostra discussione, non è stata solo l’icona della presunta “vittoria morale” dello Stato sulla lotta armata. E’ un’icona a due facce, che fu in qualche modo tacitamente "rivendicata", oserei dire anche con un certo orgoglio guerriero, anche dall’antagonista armato, e che forse ebbe anche un suo ruolo nella propaganda e nel reclutamento di militanti clandestini. Vorrei osare allora andare oltre quel che ho già scritto: questa foto è l’icona bivalente e "condivisa" di quell’affrontamento armato tra Stato e partito armato che schiacciò le speranze migliori di quegli anni (gli anni di piombo, dice bene Franco Rella, cominciarono da quella foto, non finirono), che permise di oscurare la verità sulle trame, che mise in pericolo la debole democrazia italiana. <em>Il Fotocrate</em>

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